Friedrich Nietzsche non era una mente, ma un clima. Il barometro agiva su di lui come un destino: aveva una sensibilità meteorologica intensissima, ed era così indifeso davanti allo svariare delle luci e delle temperature, che a volte scorgeva in se stesso una debolezza radicale, dalla quale non avrebbe mai saputo liberarsi. Se il clima aveva un’influenza simile su di lui, si trattava di scegliere un clima. Non sopportava quello della Germania dove era nato, né quello di Basilea, dove aveva insegnato per anni. Allora, per il resto della sua vita, emigrò nella Francia meridionale e in Italia: Mentone, Nizza, Genova, Sorrento, Messina, i laghi lombardi, Venezia, Roma, Torino – oltre che l’incomparabile Sils-Maria, in Engadina. Ma, anche lì, trovava nemici: la nebbia, le nuvole, l’umidità, il caldo, il freddo, l’eccesso o l’assenza di luce. Non sopportava l’inimicizia della natura: se il cielo era coperto, una tenaglia lo stringeva attorno alla testa, gli impediva di respirare, di pensare, di sentire, di scrivere, di camminare. La vita diventava tragica, come se fosse Aiace o Edipo, e potesse vivere soltanto nell’atmosfera irrimediabile della tragedia. Ancora una volta fuggiva: e poi di nuovo fuggiva; alla caccia di quel freddo mite e di quell’aria stimolante, che gli permettevano di scrivere. [continua…]
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